martedì 24 gennaio 2012

Iosonouncane: «Il mio Gramsci che lavora in un call center»













Per dare un'idea dell'attitudine musicale di Iosonouncane – al secolo Jacopo Incani, ventinovenne di Buggerru – si può partire da un pezzo del suo disco d'esordio, La Macarena su Roma uscito due anni fa per l'etichetta italiana Trovarobato. Un esempio è Torino pausa pranzo. Si apre con una chitarra che colora il pezzo di tinte quasi nostalgiche, Potrebbe anche sembrare, a prima vista, l’attacco di una canzone di un cantautore anni Settanta, ma quasi subito lo scenario cambia e quella chitarra viene introdotta in un contesto alieno, accompagnata da un arrangiamento di synth ed un beat sporco prodotto da una loop machine. Poi entra la voce: beffarda, sarcastica, a modo suo anche violenta, che riesce a raccontare del funerale degli operai morti nelle acciaierie della ThyssenKrupp attraverso la giustapposizione di contrasti forti, in un misto di cinismo e rabbia commossa che lascia quasi disorientati. “Torino acciaierie, pausa pranzo liberata/ nella pace bianca della zona industriale/ e un minuto di silenzio negli stadi ansimanti/ che poi riesplodono in un coro di voci rassicuranti/ in collegamento da bordocampo”. Quest'ultimo verso, in collegamento, in collegamento da bordocampo, viene ripetuto con tono struggente nel momento di maggiore intensità del brano. Un luogo comune televisivo che produce un effetto straniante, come a voler smascherare l'ipocrisia che secondo l’autore ha avvolto quella vicenda (“il coccodrillo commosso parente stretto delle borsette/ è il prezzo da pagare per i prezzi da scontare”).
Il lavoro musicale di Jacopo è la versione 2.0 del cantautorato impegnato socialmente degli anni Settanta, un aggiornamento che si produce attraverso l’incontro/scontro con l’elettronica contemporanea - un’elettronica povera, piena di spigoli, di beatbox e campionatori e tastierine giocattolo, che crea un effetto interessante. Un po’ come se, diciamo, Lucio Dalla facesse una jam session con i terroristi sonori newyorkesi dei Black Dice. Il suo disco d’esordio è stato accolto dalla critica come una delle novità più interessanti della musica italiana degli ultimi anni, svelandone la curiosità musicale, la capacità di dialogare con una tradizione melodica italiana senza risultare didascalico, un talento enorme nella scrittura dei testi. In questi mesi Jacopo è tornato nella sua Buggerru per lavorare ai pezzi del nuovo disco, che uscirà in autunno. «Avevo voglia di tornare a casa», racconta Jacopo, «Sono stato tre anni in giro completamente da solo, ho visto l'Italia in lungo e in largo e in quel periodo ho vissuto più da Iosonouncane che non da Jacopo. Avevo bisogno di fermarmi, tirare il fiato e staccarmi da quelle canzoni. Non sopportavo più nemmeno di salire su un palco. Qui sono a casa di mia madre, di mia nonna. Quando vai in giro per tre anni perdi il contatto coi motivi di fondo per cui vai in giro. Quindi sono tornato qui, in una casa dove si vede sempre il mare. Anche a Buggerru ci sono spazi di silenzio e solitudine, ma è una solitudine molto diversa rispetto a quella di un intercity».
Tutto è iniziato a Bologna, dove Jacopo è andato a vivere per ragioni di studio. Ha fondato una band, gli Adharma, che si è sciolta dopo appena un disco. «In quel periodo mi sono accorto che avevo 24 anni, senza aver finito l’università, con un lavoro in un call center per otto ore al giorno», racconta. «Volevo fare il musicista. Ho dovuto scegliere tra l’essere una persona normale che mette insieme il suo stipendio, oppure suonare. Per il momento ci ho rimesso un sacco di soldi, perché mi sono dovuto anche indebitare. Ma mi sono accorto che sapevo e volevo fare solo quello». L’esperienza in un call center, in quel periodo, è stata decisiva. Jacopo divideva il suo tempo tra il lavoro, la registrazione della demo e i primi live in giro. «Era faticoso, perché per spostarmi dovevo prendere il treno, dato che non ho la patente. E suonare e poi lavorare otto ore in un call center mi stava sfiancando». Le canzoni risentono pesantemente di quei mesi. Il tema del lavoro è presente in diverse canzoni, come ne Il sesto stato o in Superstiti, in cui Jacopo si immagina un dialogo con Antonio Gramsci all’interno del suo posto di lavoro - “Antonio che cosa ci fai qui? Ah guarda lascia perdere, due anni che mando curriculum da tutte le parti, non mi ha preso nessuno. Neanche all'Upim”. Il disco affronta anche altri temi. Nel brano di apertura Jacopo si immagina ad esempio le reazioni di una folla in spiaggia per l’affondo di un barcone di clandestini, “una folla selvaggia che invoca a gran voce la versione in carne e ossa delle morti viste in tv”, e gioca, in chiusura di pezzo, col “po po po” dei mondiali Berlinesi in un crescendo di voci che si sovrappongono creando un effetto quasi infernale. Il nuovo album conserverà quell’impronta “impegnata” nei testi ma musicalmente sarà un po’ diverso. «In quel periodo ero molto arrabbiato e a disagio per il tipo di vita che facevo. Chitarra e loop erano funzionali per dire le cose in un certo modo. Finora il progetto è stato quasi punk, un beat due accordi e via, in realtà adesso mi è tornata la voglia di lavorare su melodie ben scritte, curare gli arrangiamenti e le ritmiche. Le cose che scrivo sono più ariose. Credo che sia l’influenza di Buggerru». (a.tramonte@sardegna24.net)

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