sabato 28 gennaio 2012

Alessandro Aresu, Generazione Bim Bum Bam (Mondadori)

Domanda precisa n. 1: Che cos'è questo libro? Risposta precisa n. 1: È un gioco serio”. È quasi inevitabile chiedersi se Alessandro Aresu faccia sul serio oppure no e se sia davvero convinto che la generazione dei ventenni/trentenni di oggi sia – detto in estrema sintesi – in qualche modo figlia dell'incontro tra Alessandra Valeri Manera e Cristina D'Avena. Ovvero, la coppia da cui nacquero le più celebri sigle dei cartoni animati degli anni ottanta, tipo Lady Oscar, Hello Spank, C'era una volta Pollon, Occhi di gatto, Kiss me Licia, e così via. Generazione Bim Bum Bam, la chiama nel titolo del suo nuovo libro uscito in questi giorni per Strade Blu Mondadori (216 pagine, 17 euro). Ma è lui stesso a dichiararlo quasi fin da subito: “quando si affrontano questi temi, una certa ambiguità è inevitabile”. L'ambiguità che deriva dal prendere sul serio, anzi, dannatamente sul serio, un programma televisivo come Bim Bum Bam, “mito fondativo” di un'intera generazione e punto di partenza di Aresu per provare a definirne fisionomia e caratteri e soprattutto la sua collocazione nella storia nazionale recente. La premessa, poi, è ancora più seria. Stiamo parlando di una generazione che ancora non è riuscita a ottenere gli spazi che gli spetterebbero nella (ri)costruzione del Paese, dimenticata in un limbo in cui si è ancora troppo giovani (ma chissà poi perché) per essere considerati seriamente. In cui ancora, a 30 anni, si viene chiamati “ragazzi”. “Molti dei nostri problemi derivano dal mancato riconoscimento dell’importanza della Generazione Bim Bum Bam”, scrive Aresu. “Immersi in questa sottovalutazione, dimentichiamo i sogni e, messi davanti alla realtà, non sappiamo che fare. Ci limitiamo a frignare come bambini, anche se siamo adulti che fingono di essere giovani, e i bambini sono molto più saggi”. Epperò non è solo un problema di riconoscimento. È anche la difficoltà di riuscire a pronunciare il pronome “noi”, di riconoscersi in quanto generazione, raccontarsi come tale e dialogare con le generazioni che sono venute prima. Ovvero, quell'“appuntamento misterioso tra le generazioni” di cui parla Walter Benjamin, quel bellissimo “allora noi siamo stati attesi sulla terra” che Aresu usa per affermare che chi è incapace di dire “noi” non può ottenere nessuna redenzione, con una vita che non varrebbe, in fondo, di essere vissuta. Il libro del filosofo cagliaritano (classe ‘83) parte da qui. Si serve delle armi della satira e del paradosso, di un bagaglio culturale eclettico che frulla insieme miti pop e Benjamin, Salvatore Satta e Kojeve, per arrivare al cuore di quello che gli interessa veramente: la politica. In particolare, il suo discorso è una sorta di frustata contro “la pedagogia collettiva della paranoia” secondo cui in Italia tutto è una merda, non è possibile ricominciare e quindi si continua a piangersi addosso, ritenendo che i vizi italiani siano incorreggibili, che non ci sia nessuna possibilità di cambiare. Quasi come si dicesse ai giovani: “voi meritate un altro paese. Costruitelo da un’altra parte. Più democratico, più serio, e soprattutto più civile. L’Italia sarà sempre una nave in tempesta. L’unica strada è acchiappare un salvagente e buttarsi in mare, nuotando verso altri lidi, là dove tutto è ordine, calma e civiltà”. A questa impostazione - e contro quelli che, diciamo, possono esserne considerati i cattivi maestri - Aresu ne contrappone un’altra. La individua nel potere dell’associazione, nell’idea che il potere, “nella sua forma più nobile e nell’unica forma in grado di durare, sia collettiva”. Insomma, nella speranza che arrivi qualcuno che ogni tanto sia in grado di dire: «beh, stavolta tocca a noi, siamo la voce della nostra generazione, mettiamoci insieme e cerchiamo di combinare qualcosa, non possiamo mica passare la vita a dire che siamo circondati da orde di barbari ignoranti». (uscito oggi su Sardegna 24)

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