giovedì 2 febbraio 2012

La “resistenza”, il mestiere del giornalista e la chiusura di Sardegna 24

Qualche giorno prima di firmare il mio primo contratto giornalistico vero, il praticantato, ho incontrato una giornalista a cui devo molto. È stata lei a farmi iniziare a scrivere poco più di sette anni fa, quando ero un ventiduenne timido e presuntuoso che sapeva di voler fare il giornalista nella vita ma che non aveva ancora capito neanche da che parte cominciare. La giornalista è passata in redazione e mi ha chiesto come stessero andando le cose al giornale. Le ho spiegato che ero lì ormai da un po’, che stavo lavorando molto senza vedere praticamente un soldo e che da qualche mese aspettavo di firmare il contratto. Forse stava per arrivare. “Andrè”, mi disse, “va bene il talento, va bene saper scrivere, ma quello del giornalista è soprattutto un lavoro di resistenza”. Non ricordo se ha detto proprio queste parole precise, ma il concetto è quello. La resistenza, insomma.
Poi il contratto, beh, è arrivato. E poi, beh, il giornale ha chiuso. Che detto così fa anche un po’ ridere: il commento che pure io farei leggendo una cosa del genere è una cosa tipo “e pitticca sa sfiga”.

Mai come negli ultimi mesi ho pensato a questa cosa della resistenza. Al fatto che per fare il giornalista oggi occorre avere una determinazione così forte che quella determinazione rischia di non essere molto diversa da una specie di fissazione. Che ti spinge in alcuni casi anche ad accettare di lavorare in condizioni, diciamo, non ideali. A volte senza essere pagato, a volte accumulando crediti che non sai se verranno mai liquidati, altre volte in condizioni così precarie, sul piano psicologico prima ancora che lavorativo e contrattuale, che ogni giorno c’è una novità che mette in discussione o addirittura ribalta la novità del giorno prima e ti trovi talmente scombussolato che non sei in grado di capirci più nulla (true story). E cosa fai, in questi casi? O ti rompi i coglioni, che è assolutamente legittimo, e pensi ma chi me lo fa fare, pensi che ci sono centinaia di altri lavori al mondo che peraltro godono di meno discredito di quello del giornalista, pensi anche che ora basta, oppure, appunto, resisti.

Da poco ho ritrovato uno scambio via mail di qualche anno fa con un giornalista più anziano. Mi scrisse una cosa che ci sta abbastanza bene in questo discorso: “Per l'età che hai hai già fatto molta strada e devi essere orgoglioso e soddisfatto di quello che finora hai fatto. Ma questo è un mestiere strano, quasi mai si raccoglie subito quello che si semina, anzi. Ci vuole molta pazienza e umiltà. E umiltà vuol dire anche imparare accettare ingiustizie di tutti i tipi, perfino quella massima: lavorare gratis e non sapere perché (anzi no: quella massima è lavorare per gruppi editoriali che fanno milioni di euro di utili ma poi sfruttano i precari, non li assumono e li pagano una miseria). Questo dovrai imparare a capirlo in fretta altrimenti rischierai di soffrire moltissimo per via di un lavoro che invece dà molta felicità”. Pazienza, umiltà, accettare ingiustizie. E – aggiungo io - resistenza. (“Per l’età che hai”, tra parentesi, è un’espressione che più di ogni altra dà l’idea dello spirito del tempo). Ma il giornalismo è un mestiere che dà molta felicità, diceva il collega più anziano. E io sono totalmente d’accordo. Se non lo fossi dovrei pensare di essere un po’ masochista. Anche se “a volte l’uomo ama la sofferenza addirittura fino alla passione”: ma lo diceva Dostoevskij, mica io.

Ci sono delle frasi che suonano terribilmente ipocrite anche quando magari sono dette con sincerità. Cose tipo “quando un giornale chiude siamo tutti più poveri”, “un danno per il pluralismo dell’informazione”, roba così. Suonano come le frasi fatte che si usano quando si parla di un morto. Era una così brava persona
Leggo frasi del genere - accanto ad altre un po' gongolanti, di sicuro meno ipocrite - ormai ogni giorno dalla fine della settimana scorsa. Sardegna 24, come sapete, ha chiuso domenica. La società ora è in liquidazione. S24 era nato appena sette mesi fa attraverso “uno start-up caotico” (lo scrive il direttore Giovanni Maria Bellu nel suo penultimo editoriale). Il giornale ha visto la società dileguarsi quasi subito, lasciando direttore e giornalisti - e in generale coloro che hanno lavorato a S24 - a portare avanti un prodotto editoriale praticamente da soli con le proprie forze. Ad un certo punto il direttore ha deciso di farsi carico della società investendo risorse personali e familiari per rilevare la maggioranza delle quote del giornale e provare, in questo modo, a rilanciarlo. L’accordo si basava su un quadro dei conti prospettato dalla società che in un secondo momento si è rivelato erroneo. Da cui, il venir meno dell’accordo e la decisione di liquidare la società. E relativo disperdersi del capitale umano e professionale di S24, del lavoro di una redazione, di una squadra di grafici, tecnici e fotografi.

Ora si apre una fase incerta, eppure la si potrebbe affrontare con un entusiasmo nuovo. Piccole imprese da costruire e portare nel mare aperto. Sono cose che assumono il senso di una sfida difficile e avvincente. La resistenza non è solo stringere i denti e serrare le chiappe. La resistenza non è solo personale, ma collettiva. È, in generale e nel caso concreto, provare a immaginarsi soluzioni nuove in un mercato giornalistico che soffre una crisi devastante in tutto il mondo, in un momento di passaggio in cui la professione fa i conti con forme e modalità e strumenti diversi e deve necessariamente reinventarsi. È una fase pionieristica che merita di essere vissuta fino in fondo. Ed è anche quando penso a cose del genere - e mi dico che sarei ancora in tempo per fare altro nella vita – che mi rendo conto di quanto sia entusiasmante, in fondo, fare il giornalista. Proprio oggi. Nonostante tutto.

Questi mesi sono stati davvero fondamentali per un mucchio di cose, molte delle quali positive, addirittura belle. Nonostante l'epilogo, agonizzante, triste. Ma se potessi tornare indietro mi presenterei di nuovo in piazza del Carmine, il mattino del primo luglio del 2011, con lo stesso entusiasmo un po’ incosciente di quei giorni deliranti, a preparare per un mese intero i numeri zero di una radio che, alla fine, non è mai nata.

Nessun commento: