sabato 4 giugno 2011

Intervista ad Antonio Franchini, editor Mondadori

C’è chi dice che “noi editor saremmo degli stregoni in grado di determinare i fenomeni editoriali applicando inflessibili leggi di marketing. Ma se avessimo una ricetta di questo genere la replicheremmo ogni anno o addirittura tutti i mesi, non crede?”. Antonio Franchini è con ogni probabilità l’editor più conosciuto in Italia e di sicuro una delle persone più titolate ad affrontare le tematiche che riguardano la sua professione, mitizzata e demonizzata in egual misura, con tutte le polemiche che si porta appresso nel dibattito editoriale italiano. Franchini – ieri a Cagliari in occasione di Leggendo Metropolitano, festival organizzato dall’associazione culturale Prohairesis – è nato a Napoli 53 anni fa. Scrittore che pubblica con Marsilio (l’ultima opera: Memorie di un venditore di libri), attualmente cura l’intero settore della narrativa Mondadori, apice di una carriera che dura da una trentina di anni. Quando si occupava della sola narrativa italiana (cioè fino all’anno scorso), ha scovato, scelto e pubblicato alcuni dei maggiori best seller degli ultimi anni, infilandoci pure – en passant – la vittoria di tre degli ultimi quattro premi Strega: Come Dio comanda di Niccolò Ammaniti, La solitudine dei numeri primi di Paolo Giordano (la paternità del titolo è sua), Canale Mussolini di Antonio Pennacchi, per non parlare poi di altri casi eclatanti come quello di Alessandro Piperno o (soprattutto) di Gomorra di Roberto Saviano. Insomma, alcuni libri che hanno smosso il mercato editoriale italiano. “Ma ogni libro ès empre una scommessa, non sai mai quale possa essere l’esito sul mercato”, precisa comunque Franchini. “Anzi, quasi tutti i grandi successi degli ultimi 30 anni hanno sorpreso per primi gli editori che li stampavano. La prima tiratura di Gomorra fu di 5000 copie. Io speriamo che me la cavo, 7000. In Giordano credevamo molto ma ne stampammo 20000 copie, pensando comunque di aver preso una decisione molto forte”. Eppure capita di leggere delle polemiche che guardano agli editor come figure che – negli ultimi anni - tenderebbero ad appiattire la narrativa verso un prodotto “medio” abbastanza standardizzato, specie attraverso la scelta di opere più o meno tutte uguali. “A me interessa il linguaggio individuale degli scrittori, non quello che li accomuna ad altri”, spiega l’editor. “La strada maestra è quella di differenziarsi e caratterizzarsi. Certo, è vero che nel corso degli anni l’editoria ha assunto una struttura più industriale, ma si tratta ancora di una impresa sui generis, basata sull’intuito, sul rapporto delle persone e non sulla riproducibilità infinita”. Poi, altro tema delicato, quello degli interventi sul testo e del rapporto di editor e scrittori. Un paio di anni fa si è discusso molto del caso di Raymond Carver e degli interventi che l’editor Gordon Lish operò sulla sua seconda raccolta di racconti (Di cosa parliamo quando parliamo d’amore). Il confronto tra le due versioni mostra due opere molto diverse, fin dal titolo (Principianti). Più del 50 percento del testo fu tagliato e c’è chi considera Lish addirittura come il co-creatore dello stile minimalista di Carver. “Ogni editor però fa caso a sé”, ragiona Franchini. “L’editor lavora in accordo con l’autore, l’ultima parola spetta a lui. Io sono conosciuto come un editor poco interventista. Mi è capitato, certo, di suggerire dei tagli, anche consistenti, ma non li ho mai imposti: un editor esiste perché esiste l’autore. Ci sono anche editor che credono nella battaglia con l’autore e col testo, e anche da questo approccio può nascere qualcosa di buono. Ma non c’è una regola universale, ogni libro è una storia a parte”. Ma ci sono dei parametri, degli standard o fosse anche delle qualità generali che spingono un editor a puntare su un libro o un altro? “Contano tantissimi fattori e c’è anche un forte elemento di ponderabilità, nonostante certi critici dell’editoria dicano che ci sarebbe una ricetta, un mix ideale, che non c’è. Occorre che un’opera ti colpisca, fermo restando che le opere che arrivano sono tante ma tante di più rispetto al passato. Prima in Mondadori i dattiloscritti ricevevano due o tre letture. Ma arrivavano molti meno romanzi. E poi era più semplice giudicare: prima ti accorgevi che un libro era una schifezza anche solo dopo le fatidiche prime tre righe. Oggi mediamente – e sottolineo: mediamente – chi scrive è più capace di confezionare un romanzo. I meccanismi della fiction sono più intrioiettati. Un giovane di 20 anni oggi può vedere 20 serial televisivi diversi. Spesso gli sceneggiatori che lavorano alle serie tv sono di altissimo livello. Lost o decine di altri format sono narrativamente molto evoluti. Uno che cresce leggendo meno classici che in passato ma avendo un accesso facilitato a fiction di qualità di ogni tipo è sicuramente in grado di maneggiare meglio i meccanismi di costruzione della storia. Che questo si traduca in narrativa migliore, ovviamente non è detto. Però capire se un testo è pubblicabile o meno è diventato più difficile rispetto a 20 anni fa”. Andrea Tramonte, L’Unione Sarda di oggi (su carta in versione un po’ ridotta)

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