mercoledì 17 novembre 2010
Ma come è Hipster fingere di non esserlo
C'è una sentenza del Guardian che suona più o meno così: “Nell'autunno inverno 2010/2011, se c'è una cosa più alla moda dell'essere hipster, è ridere degli hipster”. È contenuta in un articolo di Alex Rayner che nel titolo si chiede “perché la gente odi gli hipster” e che passa in rassegna i blog che prendono di mira quella che è la sottocultura giovanile più controversa degli anni zero. Ma chi sono gli hipster? E perché in giro c'è tanta animosità nei loro confronti? Alcune caratteristiche si possono vedere in filigrana in una spassosissima striscia a fumetti pubblicata sul web, Hipster Hitler, satira politicamente scorretta in cui il dittatore tedesco viene raffigurato pettinato con ciuffo da una parte (a.k.a. ciuffo emo), occhiali dalla montatura rétro, bicicletta, t-shirts con scritte ironiche (ad esempio Eva 4 Eva, in slang, da leggere “Eva forever”) e cardigan. Nel fumetto Hitler è supponente, snob e possiede un atteggiamento di sufficienza che esaspera i suoi gerarchi. Il raggio della morte scagliato contro i nemici serve a farli vergognare dei loro gusti dozzinali. Se la prende con gli atleti tedeschi perché durante una gara mostrano di sforzarsi troppo per arrivare primi. Si lamenta col medico perché ha contratto la sifilide e la sifilide ce l'hanno tutti mentre lui sperava in una malattia più rara come la sclerosi laterale amiotrofica. Ovviamente si scherza, ma un punto è chiaro: i detrattori “non sanno esattamente cosa sono gli hipster, ma sanno quello che non gli piace di loro”. In genere nelle descrizioni che fissano alcune delle caratteristiche generali dell'hipsterismo si parte dall'abbigliamento. Maglie con collo a v di American Apparel (brand di riferimento), jeans aderenti, cappellini, cardigan o camice a quadri, roba vintage, baffi ironici o barbe da boscaiolo americano (nota: non necessariamente usare alcune di queste cose fa di una persona un hipster). Si tratta di ragazzi con un senso della moda spiccato, gusti molto precisi in fatto di musica (indie, soprattutto), posizioni ostili verso la cultura mainstream, una ricerca ostinata verso “l'autenticità” e un atteggiamento ironico forte, che si rivela ad esempio nell'appropriazione degli scarti della cultura pop e nella loro rivendicazione positiva. Sono profondamente consumisti e curano i loro gusti in modo elitario. Cercano la novità e la scartano non appena arriva al grande pubblico. Leggono “Vice Magazine”, fumano sigarette Parliament e bevono birra Pabst Blue Ribbon, girano in bici, lavorano nel campo della moda, della musica, dell'arte, del marketing. Portano i segni dell'hipsterismo ma non accettano per sé quella definizione. Inquadrate certe caratteristiche generiche (che ovviamente non per forza si concentrano tutte in un singolo individuo e che rischiano di rasentare il luogo comune), c'è da capire il perché dell'ostilità nei loro confronti. Perché se da un lato quello che può non piacere nella loro rappresentazione è un certo cliché (lo snobismo, certo gusto eccessivo nell'abbigliamento, le foto da “poser” che girano in rete), c'è chi articola la sua critica molto più in profondità. Collin Horgan sul Guardian ad esempio vede negli hipster niente più che una generazione di consumatori, una “manifestazione del tardo capitalismo che si nutre sempre nella lucentezza del qui e ora: una folla impaziente che ha imparato a scartare i prodotti più velocemente di quanto li avesse adottati”. E un articolo uscito un paio di anni fa su AdBuster ha sottolineato come con gli hipster le controculture “has muteted into a self-obsessed aesthetic vacuum”, in un articolo intitolato: “Hipster: the dead end of western civilization”. Nientemeno. (Uscito qualche tempo fa ne l'Unione Sarda)
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