Anche se i canti funebri in onore del giornalismo musicale cartaceo si sprecano e vengono intonati con cadenza regolare (poco tempo fa su Drowned in Sound, ad esempio), in realtà vivono ancora e lottano insieme a noi riviste importanti come The Wire, che continuano a rappresentare un punto di riferimento per la musica contemporanea anche in anni in cui l'informazione musicale viaggia molto di più spesso attraverso blog e social network e con modalità profondamente mutate. La rivista inglese – fondata nel 1982 da Anthony Wood e Chrissie Murray – è una lettura obbligata per addetti ai lavori, musicisti e appassionati di musica “avanzata” di tutto il mondo, un giornale in grado di spaziare dall'elettronica alla classica contemporanea, dall'improvvisazione jazz come pure al rock più avventuroso, riuscendo ad andare un po' più a fondo degli altri nell'intuire le novità musicali più rilevanti. Una prova dello sguardo della rivista è il libro appena tradotto dalla casa editrice milanese Isbn Edizioni, “La guida alla musica moderna di The Wire” (224 pp., 24 euro), una guida d'ascolto curata da Rob Young – col contributo dei migliori collaboratori del giornale - che approfondisce le stagioni musicali e gli artisti che hanno cambiato il corso della storia attraverso sperimentazioni radicali, novità nell'approccio alla costruzione della musica, contaminazioni inedite, rivisitazioni nell'uso di strumenti musicali, innovazioni tecnologiche. Una guida, insomma, a “tutti i dischi intelligenti che dovresti conoscere”, come recita il sottotitolo dell'edizione italiana. “L’obiettivo del libro si muove in lungo e in largo”, scrive Rob Young nell'introduzione, “sia in senso geografico che storico: dal Brasile delle controculture alla fine degli anni sessanta agli abitanti impoveriti della downtown di New York della fine dei settanta; dagli studi di Radio France nel secondo dopoguerra alle camerette da teenager dei produttori dubstep del Ventunesimo secolo”. Se nel campo impro/jazz vengono proposte le discografie di personaggi non convenzionali come il grande chitarrista Derek Bailey o il sassofonista Ornette Coleman (“figure più problematiche, e i loro primer svolgono la funzione di rivalutazioni della loro opera e della loro carriera”, scrive Young), e nella classica contemporanea nomi come John Cage, Morton Feldman, Karlheinz Stockhausen e un percorso all'interno dello sviluppo della musica concreta, anche il rock ha i suoi rappresentanti autorevoli – visionari del calibro di Frank Zappa e Captain Beefheart, Sonic Youth e The Fall, i “noisers” e i tropicalisti – così come la musica nera (e qui James Brown e Fela Kuti la fanno da padrona). Non c'è solo il passato, però, segno che anche l'attualità musicale ha molto da dire in termini di nuovi sviluppi e contaminazioni inedite. Ad esempio i capitoli dedicati a grime e dubstep. Il primo, scritto da Simon Reynolds, indaga la nascita di un genere che ha avuto anche importanti sviluppi mainstream (M.I.A è stata la prima starlette grime, The Streets dal sottobosco londinese è passato allo scintillio del pop da classifica). Un genere che nasce nel movimento delle radio pirata inglesi attingendo dal two-step includendovi “rappate raschianti, i legnosi beat di influenza electro e l'ispida aggressività”, con uso di sintetizzatori in grado di produrre “timbri sporchi che evocano gli anni ottanta e spesso sembrano tradire l'influenza delle colonne sonore dei film pulp, della musica da videogame e persino delle suonerie dei cellulari”. Nell'articolo di Derek Walmsley invece si sottolinea l'ossessione per le vibrazioni estreme del basso che caratterizza i produttori dubstep, intrecciando la two-step in questo caso con “austeri e imbronciati strumentali”. “Tracce di artisti del livello di Burial e Shackleton”, scrive Walmsley, “sono quanto di più elegiaco ed espressivo possa offrire la musica elettronica”. (Andrea Tramonte, Unione Sarda)
mercoledì 20 ottobre 2010
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