sabato 9 ottobre 2010

Intervista agli Zen Circus
















Gli Zen Circus sono fatti a modo loro: urticanti, forse un po' populisti, arrabbiati e assolutamente sopra le righe. Prendere o lasciare. Anche quando dicono che siamo tutti “gente di merda” (“che il vento ci disperda”), che dobbiamo andare tutti aff., quando mettono in scena un teatrino di quotidianità slabbrata e provincia cronica dove il loro sguardo scorge malessere, rabbia, spleen, disillusione. Loro cantano tutto questo senza peli sulla lingua e senza cercare di addolcire la pillola. È il loro modo di vedere la realtà e te lo sbattono in faccia. Una rabbia condensata dentro un involucro musicale che dal folk-punk di sempre accoglie coloriture wave e ci mette dentro parole asprigne chiazzata dalla loro verve da toscanacci veraci. “Più che sopra le righe siamo sotto le righe, visto che l'asticella dell'indecenza è salita sempre di più verso l'alto”, spiega Ufo, il bassista del trio pisano in concerto stasera al Teatro Civico di Cagliari nell'ambito del Karel Music Expo organizzato da Vox Day. “Nelle nostre parole c'è certo una componente cinica, però è il cinismo di noi toscani, che è parecchio acido e può essere scambiato col disfattismo. Nasce da un'insofferenza che abbiamo covato sempre, in sedici anni di carriera, ma ora che cantiamo in italiano emerge con maggiore causticità”. Gli Zen Circus - Appino, Teschio e Ufo - nascono nel 1994 e da allora hanno pubblicato sei album, l'ultimo dei quali (“Andate tutti affanculo”, uscito su Unhip Records e La Tempesta, un titolo che è “un omaggio al qualunquismo che fa molta presa in Italia”) è il primo in assoluto ad essere stato scritto interamente nella lingua di Dante. Forse anche per questo le parole arrivano prima e colpiscono di più. “Abbiamo girato il paese a lungo e l'Italia ci piace moltissimo”, chiosa ancora il bassista, “ma proprio perché ci piace l'Italia ci girano le scatole nel vedere come un paese che promette tanto si è arenato in questo modo”. La strategia, se così si può chiamare, degli Zen è facilmente sintetizzabile: “provare a scatenare lo sdegno delle persone, che ormai non si indignano più se non per cose che non hanno importanza. Il paese ha disertato, anche se ci sono tantissime persone con un potenziale meraviglioso, una legione di ottimi ragazzi, artisti, lavoratori, l'associazionismo, che però non riesce a invertire la temperie morale che c'è in questo paese”. Ma non si pensi a loro solo come a un gruppo che spara sentenze sulla società in cui viviamo. Perché in definitiva sono un gruppo di ragazzi scanzonati dalla battuta facile e una delle migliori live band in Italia, capace di tenere il palco come pochi altri. Laddove la componente più cantautorale della band passa in secondo piano in favore di un approccio molto più rock. In effetti, specie negli ultimi dischi, a volte è emerso un approccio più morbido che si potrebbe anche associare all'uso dell'italiano e a un confronto più diretto con la tradizione musicale italica. “Ora che siamo più grandi possiamo confrontarci anche con la lingua madre. Noi veniamo dal punk rock, dalla musica anglofona, per noi il rock è questo. Però più passa il tempo e più accettiamo il confronto con la musica italiana. Ma riguardo eventuali influenze in questa tradizione, credo che molto dipenda da una identificazione che scatta nell'ascoltatore, e se ascolti una cosa ruvida e acustica declinata nella tua lingua, magari non pensi più ai Violent Femmes ma a Rino Gaetano. D'altro canto penso che se uno estrae il testo e sente solo la musica ci trova rock a prescindere. Ho smesso di credere alla distinzione tra rock italiano e inglese: non c'è una via italiana al rock. Vedo gli Zen come un gruppo rock, che incidentalmente canta in italiano. Poi ovviamente abbiamo fatto un po' pace con il nostro passato italiano, ma rimanendo ben saldi nel rock. (Andrea Tramonte, Unione Sarda)

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