lunedì 16 agosto 2010

American indie, Michael Azerrad (Arcana edizioni)

















Se in tempi recenti si è usato l'ossimoro indie-mainstream per descrivere certe band, deve essere successo qualcosa negli ultimi anni nell'universo della musica indipendente: una sorta di spostamento del concetto dal suo contenuto originale a un significato indistinto che tende ad inglobare un mucchio di cose, anche distanti da quelli che sono stati per una ventina d'anni i codici estetici che hanno rappresento l'universo musicale “indie” (post hardcore, lo-fi, noise, alt-country, slowcore, post-rock, indie pop) e quelli etici legati al concetto di auto-produzione e do it yourself. Complice anche il fatto che oggi il mercato discografico si basa essenzialmente su etichette piccole e microtrend e le major hanno perso spazi e rilevanza, la categoria in definitiva potrebbe essere applicata a chiunque. Ma non solo: negli ultimi anni abbiamo assistito a una “mutazione genetica”, nella quale il termine - scrive il giornalista Carlo Bordone – indica “una categoria merceologica ed estetica, in buona parte figlia anche del boom degli Strokes e di centinaia di loro cloni”. Certo non solo, ma nella percezione, specie dei detrattori, anche questo. Ecco perché si saluta con entusiasmo l'uscita italiana di un libro del giornalista americano Michael Azerrad, American indie. 1981-1991 (Arcana edizioni, titolo originale “Our band could be your life). È un libro bellissimo che prende in esame le fondamenta di quella rivoluzione underground che negli anni ottanta gettò le basi di buona parte del migliore rock indipendente degli anni a venire, fino al 1991 – l'anno di Nevermind dei Nirvana, l'anno in cui il rock alternativo arrivò al primo posto della classifica di Billboard scatenando una caccia delle major fino all'ultima delle band indipendenti, alla ricerca di un altro strike economico degno di quello della band di Kurt Cobain. Pur con alcune esclusioni dolorose (e in versione esclusivamente “americanocentrica”) si parla di band cruciali come Black Flag, Sonic Youth, Minutemen, Beat Happening, Dinosaur Jr, Big Black e Fugazi e di etichette come SST, Sub Pop, K Records, Dischord e Touch & Go. Gli albori della nascita di un network di piccole etichette, radio indipendenti, fanzine, piccoli negozi di dischi che ha iniziato a rappresentare un'alternativa di sistema al mercato discografico mainstream, dove potessero trovare spazio progetti musicali per un pubblico diverso, di nicchia, sostenuti dal passaparola e dall'amore appassionato di fan e critici: un network underground fondato sulla cooperazione, una “ferrovia culturale sotterranea” che nell'America di Reagan – e in opposizione a quell'America - si rese conto che stampare un disco “non era il privilegio misterioso riservato alle grandi compagnie” e iniziò a produrre materiali musicali che le major non avrebbero mai stampato. Fu l'apertura di possibilità generata dal punk: “tutti possono farlo”. E poi lo spirito: il perseguimento di un ideale artistico senza compromessi. La ribellione DIY. L'etica del lavoro. L'idea di poter fare musica senza per forza essere delle star. Del resto, come dicevano i Minutemen: “Guardateci, siamo proprio come voi: tre sfigati di provincia che ci stanno provando. Perché non ci provate anche voi?”. (Andrea Tramonte, Unione Sarda 15/08/2010)

1 commento:

vincyfed ha detto...

Gran bel libro; mette in evidenza perfettamente non solo la musica dei gruppi di cui parla ma anche il mondo che c'era dietro di loro