giovedì 8 luglio 2010

Totally Wired di Simon Reynolds
















È incredibile pensare che Simon Reynolds – critico inglese, uno dei giornalisti musicali più noti al mondo – abbia avuto voglia di tornare sull'argomento Post Punk dopo aver scritto il libro omonimo, una monumentale bibbia laica che affrontava in modo esaustivo il periodo musicale compreso tra il 78 e l'84: ovvero, una delle stagioni musicali più eccitanti di sempre sviluppatasi all'interno della risacca lasciata dall'onda breve (ma violenta) del punk. Ecco il “dietro le quinte” di Post Punk, un librone di 492 pagine intitolato Totally Wired (Isbn edizioni) che contiene glosse, appunti a margine, altri saggi e interviste che integrano e arricchiscono il discorso sviluppato nel libro precedente. Perché tornare ancora su quel periodo storico? Non solo per criteri di gerarchia musicale: in fondo solo dopo anni di oblio si è finalmente riconosciuto che quella stagione ha prodotto alcuni tra i materiali più intriganti di sempre della storia del “rock”, con un'espansione delle possibilità della musica giovanile generata attraverso nuove contaminazioni e una visione del rock animata da una “urgenza al cambiamento costante”. Basti pensare che dentro l'etichetta “post-punk” ricadono band fondamentali come Talking Heads, Wire, Joy Division, Pere Ubu, Public Image Ltd, Gang of Four, i Birthday Party di Nick Cave, XTC, Cure, Devo, This Heat, Pop Group, tutto il giro no wave newyorkese, i Fall di Mark Smith, New Order, Residents, i primissimi U2. Materiali molto variegati: dalla collisione tra punk e funk alle sperimentazioni più austere – che in alcuni casi si collegavano ai materiali nascosti dei settanta, come krautrock e Canterbury Sound – dall'uso dei sintetizzatori al decostruzionismo pop, da forme di rock “esistenzialista” fino al new pop che poi tanta fortuna ebbe nel corso degli anni ottanta, dall'industrial fino a forme di disco più o meno deviata. Un periodo irripetibile in cui fiorirono le prime etichette indipendenti e che ha prodotto lasciti fondamentali in tutta la musica che è venuta dopo. Ed ecco quindi un altro motivo per tornare sul post punk: per parlare dell'oggi, del qui e ora musicale che ha attinto pesantemente da quegli anni attraverso un saccheggio sistematico e – in alcuni casi – davvero proficuo: i casi emblematici (e più noti) di Interpol, Liars, LCD Soundsystem e Franz Ferdinand sono qui a testimoniarlo. Il libro è un'occasione per tornare su questi argomenti in modo approfondito, spesso attraverso le testimonianze di alcuni dei personaggi chiave di quel periodo. Illuminanti in tal senso sono le interviste a Jah Wobble, il responsabile del basso miracoloso dei primi dischi dei Public Image Ltd di John Lydon (aka Johnny Rotten, il marcio dei Sex Pistols poi profeta del post punk), o quella al fondatore della Factory Tony Wilson, morto nel 2007, con una rievocazione importante del lavoro straordinario di Martin Hannett nella produzione dei Joy Division. O quella a David Byrne dei Talking Heads e al grandissimo John Peel di Radio One (capitava che la gente parlasse “dei “gruppi di John Peel” come scorciatoia per indicare un certo tipo di bizzarra formazione post-punk do-it-yourself volutamente eccentrica”). Ma il libro è anche un modo per fissare nuovamente le teorie di Reynolds su quel periodo storico. Una dichiarazione su tutte spiega lo spirito avventuroso di quell'epoca: “Forse il modo migliore per pensare al post-punk non è nei termini di un genere ma in quelli di uno spazio di possibilità, dal quale è emerso uno spettro di nuovi generi: dark, industrial, synthpop, mutant disco e altri. Poiché è uno spazio – o forse un discorso sulla musica, più che uno stile musicale – ciò che unisce tutte queste attività è un insieme di imperativi indefiniti: innovazione, eccentricità intenzionale; il rifiuto di tutte le cose che avevano precedenti o che erano «rock’n’roll». Andrea Tramonte, Unione Sarda, 7/07/2010

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