giovedì 30 giugno 2011
Italia Reloaded (Il Mulino)
Prima di tutto i numeri. L’Italia ha ridotto complessivamente gli stanziamenti a favore della cultura del 30 per cento negli ultimi cinque anni, a cui vanno aggiunti i tagli degli enti locali con i quali, si stima, si andrà ad una riduzione totale di circa 1.100 milioni di euro nei prossimi due anni. Cifre enormi che non si spiegano solo con la crisi economica, se è vero che contemporaneamente la Francia ha aumentato gli stanziamenti di circa 100 milioni e che “nei paesi del Nord Europa il sostegno alla cultura, proprio a causa della crisi, non è stato ridotto ma in molti casi è rimasto sostanzialmente stabile”. Christian Caliandro (storico dell’arte) e Pier Luigi Sacco (professore di economia della cultura) hanno provato a ragionare su questi temi in un libro uscito di recente per il Mulino: “Italia Reloaded. Ripartire con la cultura” (domenica alle 12 ne parleranno al Festival di Gavoi insieme a Ritanna Armeni, Renato Soru e Bruno Murgia). Insomma: per quale motivo il “paese che ha la cultura nel suo dna” non investe e – quel che è peggio – porta avanti concezioni culturali obsolete, puntando solo sulla “salvaguardia” del patrimonio culturale e non sul sostegno attivo ad una produzione contemporanea in grado di interpretare l’oggi, dirci chi siamo, fornire una autorappresentazione credibile di quello che è l’Italia in questi anni? Gli autori denunciano un immobilismo nella gestione dei beni culturali che va di pari passo con l’immobilismo culturale – e con l’immobilismo tout-court - del nostro paese. Cultura come “tomba” dove “riposa” la rimozione della storia italiana degli ultimi 30 anni, e che si traduce nell’incapacità di prestare attenzione alla produzione culturale contemporanea – si tratti di arte cinema musica design letteratura serie tv. “In Italia la cultura è confinata nell’ambito angusto dei beni culturali, da cui rimangono escluse praticamente tutte le espressioni e le energie vive, attive, quelle che fanno la produzione culturale”. Complice anche il prevalere di una concezione passiva della politica culturale, secondo la quale la finalità dell’offerta è avere riscontro nella domanda e per cui l’impatto dell’esperienza culturale si misura “in termini di audience e di ritorno economico: se e come l’esperienza abbia avuto effetti sul sistema di motivazioni e sul bagaglio cognitivo dei fruitori è tutto sommato irrilevante”. Un esempio è quello delle città d’arte, che propongono un modello “disneyficato” di fruizione culturale, con riscontri sul piano economico ma gestite in modo non solo da pregiudicare “la capacità di produrre nuova cultura in quei luoghi, ma anche di conservare il significato di quella che si è tramandata nel tempo”. A questa concezione gli autori ne propongono un’altra, “proattiva”, che si concentra sul modo in cui l’esperienza culturale agisce sul “bilancio cognitivo” di chi partecipa. E di “ripartire con la cultura”, appunto: in grado di rompere il blocco psicologico che grava sull’Italia da una trentina d’anni e favorire la ricostruzione identitaria del paese. (at, oggi nell’unione sarda)
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