Ormai siamo sempre più abituati a usufruire di servizi gratuiti in rete. Mandiamo mail con Gmail o le archiviamo nello spazio illimitato offerto gratuitamente da Yahoo. Guardiamo video di ogni genere su YouTube. Ci teniamo in contatto con amici e conoscenti su Facebook. Chattiamo e parliamo telefonicamente su Skype. Navighiamo su internet usando il browser gratuito Firefox. Carichiamo i nostri album fotografici su Flickr. Ascoltiamo musica scaricata in rete. Consultiamo Wikipedia online.
In tutto questo uno si chiede come diavolo faccia ad esempio Google, che non fa pagare quasi nessuno dei suoi servizi, ad essere un'azienda da 20 milioni di dollari, “che fa più profitti di tutte le compagnie aeree e le aziende automobilistiche americane messe insieme”.
«Il paradosso del gratis è questo: c'è gente che guadagna un mucchio di soldi senza far pagare niente». A sostenerlo è Chris Anderson, direttore di Wired USA, guru della rete e influentissimo teorico della coda lunga, in un libro uscito da poco per Rizzoli: Gratis appunto (284 pp, 19.50 euro). Gratis nel vero senso della parola: zero dollari, zero euro. Un nuovo modello di business in cui le aziende offrono servizi online senza chiedere soldi agli utenti, riuscendo comunque a guadagnarci. Ovvero quello che siamo stati abituati a conoscere in rete. Google è l'esempio più clamoroso: offre moltissimi servizi gratuiti (per fidelizzare i consumatori) guadagnando solo da pochi di essi. Ma anche i media hanno iniziato a prendere una maggiore dimestichezza col concetto di gratis, andando incontro a trasformazioni profonde. Il modello free to air - per intenderci quello di radio e tv, gratuite e finanziate dalla pubblicità - si sta diffondendo in rete anche tra i quotidiani che finora hanno mostrato le maggiori riserve verso il gratis. L'edizione online del New York Times è diventata gratuita nel 2007, generando clamore in tutto il mondo: niente più notizie a pagamento, sarà la pubblicità a generare gli introiti. Del resto, se i costi di circolazione delle informazioni e dei contenuti in rete sono praticamente nulli, questo significa che gratis è un prezzo ragionevole, che ha il pregio inoltre di consentire di raggiungere il numero di persone più ampio possibile. L'economia del gratis è perlopiù un'economia del bit, un'economia che si sviluppa in rete perché ci sono delle condizioni che lo consentono: «il prezzo della banda di trasmissione dei dati e quello dei supporti di archiviazione crollano in fretta», spiega Anderson. Tradotto con un esempio: il prezzo che oggi paga YouTube per trasmettere un video in streaming sarà dimezzato tra un anno. «Le linee di tendenza che determinano il costo delle attività economiche online puntano verso lo zero».
Ecco perché è facile lanciare un nuovo prodotto, farlo circolare gratis in rete per consentire di raggiungere il pubblico e poi capire, in un secondo momento, come guadagnarci sopra. In tutto questo anche l'industria musicale sta mutando radicalmente. I Radiohead hanno pubblicato In Rainbows sul loro sito, chiedendo al consumatore di stabilire un pezzo per l'acquisto. Permettere alla propria musica di circolare gratuitamente è una forma di pubblicità. Alimenta l'interesse per i concerti e la vendita del merchandising, e inoltre non elimina assolutamente la presenza di quei fan che sono disposti a comprare i dischi, anche in versioni extralusso parecchio costose. Nonostante la diffusione dell'album in libero download i Radiohead hanno venduto centomila copie del box da 80 sterline. E dicevano che il gratis avrebbe ucciso la musica. Andrea Tramonte, Unione Sarda, 03/12/2009
martedì 8 dicembre 2009
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