Sabato è uscito un mio articolo (questo) su Beatrice Antolini nella pagina degli spettacoli dell’Unione Sarda. Con quel pezzo è iniziata ufficialmente la mia collaborazione con l’Unione, dopo aver scritto per 5 anni per le pagine culturali del giornale di Sardegna (poi Il Sardegna e E Polis). Qui sotto il resoconto della chiacchierata, for blog only. L’inaugurazione della serie “outtakes giornalistiche”.
“A due” istintivamente si legge in italiano, però in realtà può essere letto anche in inglese, e vuol dire “un dovere.” Questa ambiguità è voluta?
In inglese “due” vuol dire dovere, necessità, ma anche qualcosa che ti è dovuto. Ho scelto quel titolo anche perché erano le iniziali del mio nome: A e due, nel senso di seconda lettera dell’alfabeto. Vuol dire in due perché in questo disco ho lavorato anche con un’altra persona. A 2 è anche l’ottava di pianoforte da cui nascono tutti i miei pezzi. Dentro quel titolo c’è una coerenza estrema che rinchiude un sacco di cose. Odio i titoli a caso che non hanno attinenza con quello che fai.
Tu affermi sempre con orgoglio di fare più o meno tutto da sola. Ma come vedi il confronto con altri musicisti, ad esempio in ottica live?
Il disco in studio lo intendo come un prodotto artistico con processi che si sviluppano all’interno di quella situazione. È un rito magico, una situazione irripetibile. Ed è un discorso intimo, personale. Dal vivo c’è un altro approccio. Ho scelto di avere una band e lavoro con dei musicisti con cui c’è grande affiatamento, una atmosfera di divertimento e complicità. Non c’è dittatorialità da parte mia. Certo, i brani li scrivo io quindi ho dei punti fermi, però sono aperta ai contributi degli altri.
E dal vivo come si rende l’estrema complessità del disco?
Si punta su altre cose. Ad esempio su ritmica, volume. Dal vivo ho scelto di avere una band con sei persone pur avendo dovuto rinunciare ai molti strumenti che ci sono nel disco. Scarnificando. “A due” è pieno zeppo di tracce, di sovraincisioni. Dal vivo è un discorso a togliere, a rendere essenziale, pur mantenendo le cose riconoscibili.
L’impressione che si ricava paragonando i due dischi è che il secondo sia un po’ meno imprevedibile e che la formula si sia stabilizzata. Tu come lo vedi?
Non lo vedo, lo vivo. Dal primo disco al secondo sono passati 4 anni. Anche se è uscito nel 2006 il primo l’ho finito nel 2004. In quattro anni si cambia moltissimo, specie se si è ricettivi verso il mondo. Io sono cresciuta e cambiata moltissimo e sono sicura che anche il prossimo disco sarà diverso. È una mia costante. Mi piace il mutamento. Non mi piacciono le persone che fanno una cosa che non cambia mai. È bello che anche i caratteri e le intenzioni cambino nel corso della vita. Non è segno di incertezza ma di maturità.
Il tuo esordio è stato per una etichetta underground come la Madcap, ma negli ultimi due anni hai avuto moltissime attenzioni da media mainstream. Come hai vissuto questo passaggio?
Molto bene. Sono l’ultima persona che ha voglia di ghettizzarsi. L’indie rock per me è stata una situazione di passaggio quando non potevo avere di meglio. Ci sono stata bene e non ho niente da recriminare, ma il mio obbiettivo non è rimanere in un ambito di nicchia. Per me andare su Glamour è un mezzo per proporre la mia musica a un altro pubblico. È quello che voglio. È bello che parlino di te le riviste specializzate ma anche i quotidiani. Quando si fa questo lavoro a tempo pieno è bene che succeda perché con la musica ci devi vivere. Se rimani in un ambiente piccolino non mangi. Fare il doppio lavoro per riuscire a pagare l’affitto è deprimente. Non sei né carne né pesce. Io preferisco fare una scelta di vita, assumendomi la mia responsabilità.
La maggior parte delle persone – musicisti, addetti ai lavori – invece pensano che non si possa vivere di musica, se non ad altissimi livelli. Tu cosa ti aspetti?
Io ho fatto una scelta religiosa, e cerco di mantenerla in tutti i modi cercando di prendere quello che mi arriva. Non ho mai pensato al compromesso, anche perché io sono al cento per cento quello che faccio e voglio vivere di quello che faccio. È un discorso difficile, ma bisogna avere le palle per farlo. Molti non hanno voglia di rischiare. Se uno è consapevole e bravo è più facile riuscirci. I musicisti che non mangiano con la loro musica evidentemente non sono del tutto convinti di quello che fanno. Lavorare ventiquattro ore al giorno e con convinzione forte porta a ottenere i risultati.
Tu hai avuto una formazione classica. Come è nata la voglia di confrontarsi con la musica, diciamo, rock?
Io nutro una grande curiosità verso tutta la musica, verso quello che c’è stato dal passato remoto al giorno d’oggi. Senza distinzioni tra classica, rock o simili. Ad esempio penso che alcune cose rock uscite negli anni settanta e nei primi ottanta siano superiori a molte delle composizioni classiche contemporanee. In alcuni periodi storici sono state interessanti alcune cose, in altri casi altre. Oggi c’è un tale miscuglio di generi che non vale la pena fare distinzioni. In Brian Eno trovo cose molto più interessanti che in chi esce da venti anni di conservatorio.
Un tuo pezzo è stato inserito nella compilation degli Afterhours, Il paese è reale, che fotografa una certa vitalità della musica “indipendente” italiana. Come giudichi la situazione?
Di solito non amo esprimere giudizi su altri. Ognuno è libero di fare quello che vuole e io di ascoltare o di buttare il cd fuori dalla finestra. Però credo nella meritocrazia. Se delle cose non mi piacciono ma funzionano evidentemente c’è una ragione per cui hanno successo. Magari sono persone che si impegnano come faccio io. Avendo vissuto quest’anno altri ambienti e altre situazioni, trovo che in ambiti non indie c’è gente molto valida. Ottimi professionisti che meritano quello che hanno ottenuto. Poi ovviamente ho ringraziato tantissimo Manuel Agnelli per avermi inserito nella sua compilation.
La collaborazione con i Baustelle come è nata?
Mi hanno chiamato loro. Era appena uscito il primo disco. L’interesse di Bianconi è stato bello e spiazzante. Ma voglio precisare che ho collaborato anche con altri oltre che con i Baustelle. L’ultima collaborazione è stata con Andy dei Bluvertigo. Abbiamo suonato alla Festa Moog insieme. Dopo due prove siamo entrati assolutamente in sintonia. E con i Velvet abbiamo realizzato un pezzo molto divertente e molto pop.
Quanto peso hanno i testi nell’ambito della tua musica?
I testi sono sempre più importanti. Invecchiando ho iniziato a interessarmi sempre di più anche alla comunicazione verbale, di cui prima non mi curavo. È una evoluzione. Se non si va in alto meglio non andare da nessuna parte. Nel primo disco le parole non avevano troppo valore perché era giusto che non lo avessero. Big saloon era un exploit musicale. Le parole erano suono. Adesso ci tengo che ci siano delle cose espresse.
Il fatto di aver registrato il secondo disco in studio anziché in casa e con meno tempo a disposizione, in cosa credi che abbia cambiato il tuo approccio?
Vivo “A due” come un disco incompiuto. Da una parte la cosa mi piace, voglio precisarlo. Lo sento come non finito per tutta una serie di cose, ma lo rifarei così. Tra parentesi non si trattava di un vero studio, ma di uno studiolo in una stalla in una collina, a contatto con la natura. Il disco è nato mentre lo registravo. È iniziato direttamente lì dentro. Quando potevo, tra un concerto e l’altro, andavo lì e lo scrivevo. A parte per qualcosa, sono contenta che esista. Ma il prossimo disco sarà sempre più una mia responsabilità. Ho capito che le cose funzionano solo quando le prendi su di te al cento per cento.
lunedì 19 ottobre 2009
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