giovedì 30 dicembre 2010
Michael Lavine, Grunge (Isbn edizioni)
Prima di diventare un fotografo di grande fama richiesto da star hollywoodiane, rapper e giganti del rock, Michael Lavine ha avuto una sua educazione artistica e sentimentale tra la Seattle e l’Olympia underground dei primi anni ottanta, negli anni in cui iniziò a svilupparsi piuttosto naturalmente un bellissimo fermento punk che condusse col tempo a quella deflagrazione del rock alternativo che i media identificarono con l’etichetta (“brutta”, almeno secondo Thurston Moore dei Sonic Youth) di grunge. Erano gli anni della nascita della Sub Pop Records di Bruce Pavitt e Jonathan Poneman, dei primi passi di ragazzi di talento che poi diedero vita a band del calibro di Nirvana e Mudhoney, della K Records di Calvin Johnson e della definizione dell’estetica lo-fi, di tutto un movimento di musicisti, locali, fanzine ed etichette che diede forma ad alcune delle esperienze migliori e più durature del rock indipendente americano. Michael Lavine arrivò a Seattle nel 1982, da Denver, subito dopo il diploma. A Olympia, ad un’ora di macchina, condivise l’appartamento con due ragazzi punk: uno di questi gli fece sentire Wild Gift degli X aprendogli un mare di possibilità e di conoscenze musicali. Iniziò a buttarsi con maggiore convinzione nella fotografia e nel giro di qualche anno poté documentare, con i suoi scatti, praticamente tutta la scena musicale underground di allora. “Grunge” (Isbn edizioni, 29 euro) è il libro che racconta quegli anni musicali attraverso le foto migliori di Lavine – non solo il grunge in senso stretto, diciamo, ma il rock alternativo tutto che attraversava gli Ottanta statunitensi, dalla New York dei Sonic Youth alla Olympia dei Beat Happening, dalla Amherst dei Dinosaur Jr alla Washington dei Pussy Galore – fino ovviamente alla Seattle di Nirvana, Mudhoney, Screaming Trees, Soundgarden, cioè quello che poi venne definito, da Megan Jasper sul New York Times, “grunge”. C’è tutto l’immaginario e l’estetica di allora: giovani punk di strada che Lavine avvicinava con molta naturalezza, ci sono gli sguardi e i volti di ragazzi che manifestavano una volontà, anche ingenua, di sicuro autentica e rabbiosa, di sfidare le convenzioni sociali dell’America del tempo attraverso la marginalità. Le loro pose sfrontate e un’attitudine violenta, ma anche, in fondo, dolce. Tutta la verità di una sottocultura colta prima che diventasse un fenomeno codificato e sfruttato da mass media e industria (le camice di flanella lanciata nel mondo del glamour da Marc Jacobs). Musicisti che “fecero proprio e ostentarono il modo in cui venivano chiamati al liceo: loser, perdenti” – come scrive Thurston Moore nella prefazione del libro. Moore traccia un profilo del lavoro di Lavine di quegli anni e soprattutto avanza delle riflessioni sulle caratteristiche e sul destino di una sottocultura che, in seguito all’esplosione di Nevermind dei Nirvana e al “fallimento nel riconoscere il vero significato culturale della loro eredità creò un fenomeno commerciale di underground fasullo”. “Le band di quella generazione”, conclude Moore, “avevano imparato dal punk che i riconoscimenti sono poca cosa nel rock’n’roll. Quello che davvero contava era di essere capaci di sostenere lo sguardo di un pubblico, di una macchina fotografica, del mondo, come uno specchio che ti sfida ad essere infranto”. (Unione Sarda)
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