mercoledì 13 gennaio 2010

Andrej Longo, Chi ha ucciso Sarah?

Dice Andrej Longo che aver svolto lavori come pizzaiolo, istruttore di surf, bagnino, cameriere era per lui una forma di libertà, un modo per «non essere obbligato a scrivere quando non avevo nulla da scrivere». Oltre che, certo, per guadagnarsi da vivere nel tentativo di affermarsi nel mondo dell'editoria, quando ancora lo scrittore campano collezionava rifiuti dalle case editrici e ciò che lo alimentava ancora era l'amore incondizionato per la scrittura, «una cosa indispensabile che mi porto dietro da sempre». Ora le cose sono un po' cambiate. Negli ultimi anni sono arrivati, in sequenza, un contratto con la Adelphi, l'uscita di una raccolta di racconti (“Dieci”) accolta molto bene da critica e pubblico, la vittoria del Premio Bagutta e del Premio Chiara. «E adesso», dice con un filo di ironia, «dopo aver fatto tanti lavori, fatemi fare un po' anche lo scrittore…». Di recente è uscito il suo nuovo romanzo, “Chi ha ucciso Sarah?” (Adelphi, 177 pagine, 17 euro), e come il titolo lascia intuire, si tratta di una incursione di Longo negli stilemi narrativi del giallo, anche se in modo atipico e con molti distinguo da fare. Siamo a Napoli a metà degli anni Novanta. Un giovane poliziotto di nome Acanfora scopre il cadavere di una ragazza in un androne a di Posillipo. È la prima volta che si imbatte nella morte. Il colpo è forte ed è uno dei motivi che lo spingeranno a impegnarsi in tutti i modi, insieme al commissario Santagata, per risalire al colpevole del delitto. Sullo sfondo di una Napoli che, come la Gallia, sembra essere divisa in tre parti: quella benestante di Posillipo, quella degradata delle periferie malavitose, quella “normale” di Acanfora. Come lui stesso scoprirà, anche nella parte “bene” della città le zone d'ombra coprono un'area fin troppo vasta della vita dei suoi abitanti. «Nel libro ci sono tre forme di degrado diverse», spiega l'autore. «E quella della borghesia non riguarda solo Napoli ma l'Italia in generale. Di solito si immagina che la borghesia debba essere il traino della società. Questo non accade. La borghesia si fa gli affari suoi, esattamente come succede nel libro». Il romanzo, si diceva, è un giallo atipico: «In genere nei gialli e nei noir ci si focalizza sull'indagine o sulla realtà sociale. In questo caso il protagonista è Acanfora. Cresce, cambia, si trasforma, prende coscienza di tante cose». Tra queste, la necessità di non cedere all'indifferenza e all'egoismo. Rispetto ai racconti crudi, spietati, dolorosi di “Dieci”, sembra quasi che qui alla fine ci sia un messaggio positivo. «Un elemento di speranza in più alla fine c'è. Ma il contesto dove si sviluppa è molto duro. È una speranza con le virgolette. È più che altro un desiderio di speranza». (Andrea Tramonte, Unione Sarda, 23/12/2009)

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